30 maggio 2013

Quand'è che abbiamo smesso di ridere?

Un'altra storia ipocalorica


Mi ricordo che facevamo delle belle feste giù al paese. Mi ricordo le feste di carnevale, le aspettavamo con ansia. Aspettavamo febbraio con in mente i colori e le maschere, gli scherzi, Arlecchino, quel mezzo grammo di anarchia che regala il Carnevale ogni anno. Da settimane il quartiere era in fermento. Due-tre donne si occupavano della ideazione-progettazione-realizzazione dei costumi. Si partiva con un tema: il circo, la Chiesa, gli animali e, una volta approvata un’idea, ognuno si sceglieva un personaggio. Le sarte erano le regine indiscusse di quel momento. Era un via vai continuo di persone da una casa all’altra, soprattutto donne con lo scialle per proteggersi dall’alito ancora freddo di febbraio. Mia nonna faceva parte del gruppo d’elite delle sarte. Aveva la stanza piena di vestiti, pile di stracci colorati cuciti insieme da tanta pazienza, riflesso di una cultura contadina mite. Era capace di restare incollata alla macchina da cucire per ore, con la luce fioca di un lampadina a pochi watt, a scandire i minuti al ritmo del pedale di ferro. Entravano zie, cognate, cugine e donne di ogni titolo. Era il trionfo delle donne. Comandavano loro in quei giorni, non ce n’era. Amministravano tutto: il cibo, i vestiti, la logistica, la spesa, la contabilità, l’umore. Gli uomini si limitavano a eseguire gli ordini, pur restando immersi in una prosa virile da quattro soldi che gli dava l’impressione di essere sempre al comando. 

Mi ricordo che un anno ci vestimmo tutti da preti, diavoli e suore. Avevamo scelto di fare la chiesa quell’anno. Chissà perché poi. Forse perché erano gli anni di Woitjila e del Papocchio, anni in cui si scherzava abbastanza su quei temi là. Sta di fatto che passammo tutto gennaio a scegliere il vestito. Mio fratello diventò vescovo, io guardia svizzera, mia madre suora, mio padre diavolo. Il giorno della sfilata partimmo da casa con due camion da edilizia, quelli che di solito portano il tufo. Ci salimmo tutti, con trombe, pentole, coperchi, cucchiai di legno, a celebrare non si sapeva bene cosa ma non importava. Si doveva ridere. Questo era l’imperativo della giornata. Questo me lo ricordo bene.


Andammo in giro per le strade strette del paese, tra i raggi pallidi del tramonto corto e il muggito dei camion sottosforzo. Tutto intorno era festa, ma c’era un caos misurato, pregno di pudori nonostante tutto. Eppure il filtro della memoria mi fa vedere solo la luce di quelle giornate, i colori vivi e la schiuma bianca, i coriandoli che restavano incastrati nel collo, le ondate di fialette che arrivavano ogni tanto, le bastonate con quelli della case popolari. Quei bastardi del cazzo, che li riconoscevi perché si vestivano tutti da mostri, con la camicia di flanella a quadrettoni, la clava e la maschera di qualche zombie o personaggio del male. Erano tutti figli di ladri e contrabbandieri e stavano parcheggiati in case che occupavano abusivamente, con il solo titolo della prepotenza. Arrivavano sempre minacciosi alle sfilate e si muovevano in branchi, in cerca di qualcosa da rubare o qualcuno da menare. Avevano clave di plastica morbida, ma loro le rafforzavano con lo scotch o con un po’ di stoffa legata intorno. Cercavano il ragazzino che sembrava più indifeso, lo circondavano e lo riempivano di schiuma per poi finirlo a bastonate. Tutto sulla falsa riga di uno scherzo, ma colpivano duro. Noi ci muovevamo sempre in gruppo proprio per evitare quelle situazioni. E quando incrociavamo qualcuno di questi che si avvicinava minaccioso scattava la rissa: era matematico.

Dopo la sfilata con i camion rientrammo a casa. Le donne avevano già preparato la sala per la festa, che poi



era un garage senza nemmeno l’intonaco ma capiente abbastanza per contenere il baccanale di provincia di quel 1989. Gli uomini si occupavano dei lavori pesanti: spostavano i tavoli, disponevano le panche, posizionavano le stufe, montavano l’amplificatore della fisarmonica. Mio zio suonava la fisarmonica. Si alternava con mio nonno, che faceva giusto qualche pezzo perché un po’ si imbarazzava a esibirsi in pubblico, visto che suonava a orecchio e ogni tanto inciampava sui tasti. Mio zio invece era più sicuro, padrone nel muovere le mani con la bravura di chi ha maneggiato musica al conservatorio, allenandosi con il pianoforte. Leggeva gli spartiti a vista e si accompagnava con delle basi preregistrate con i ritmi del walzer, della mazurca, della polka, della tarantella albanese. Ballavano più o meno tutti, tranne qualche coppia di timidi o le nonne vecchie vecchie, che mi ricordo sempre vecchie da quando sono nato. Guardavano la festa con il sorriso sulle labbra, sorseggiando i palpiti di vita forse più degli altri. Forse. Chissà. Certo alcune non ce la facevano proprio: dopo mezz’ora sprofondavano nel sonno e le figlie le coprivano con lo scialle. Io con gli altri bambini ridevo di questo loro cedimento, con la cattiveria naturale che striscia nelle risate degli innocenti. Andavamo da una parte all’altra, correndo senza sosta, schivando i ballerini tutti concentrati nei loro passi prudenti e misurati. 

Mi ricordo che quella festa finì con una specie di matrimonio farsa celebrato da uno vestito da prete che ripeteva certe formule sacre in modo blasfemo. Bestemmiava, ad esempio, oppure prendeva un pezzo di salame e diceva: “Questo è il corpo di Cristo” e tutti giù a ridere in modo sguaiato, come si ride quando ci si rende conto di aver infranto un tabù. 

Alla fine c'era la pignata. Si finiva sempre con “la pignata”, che poi sarebbe la pentolaccia, ma noi la chiamavamo così perché usavamo una pentola di terracotta: una pignata, appunto. In realtà, qualche anno facevamo la variante con una brocca, sempre di terracotta, che non era attaccata al soffitto ma la teneva in mano un uomo. Funzionava così. Nella brocca c’erano i dolci e le caramelle per noi. Un uomo impugnava la brocca e la batteva sul pavimento un paio di volte, con due colpi veloci. Tap tap. A questo punto un altro uomo, bendato e con la mazza, roteava su se stesso brandendo il manico di legno come una spada per rompere la brocca. Era pericoloso, ogni tanto qualcuno si faceva male. A noi ci tenevano sempre lontano, anche se era impossibile perché scalpitavamo per correre e afferrare tutte le caramelle che poteva prendere la nostra avidità di bambini. E avidi di zuccheri lo eravamo davvero, tanto che spesso finiva in rissa. Qualcuno si beccava anche qualche calcio di nascosto, come quel coglione che veniva sempre a queste feste. Era un parente di un parente, lo conoscevo appena. Mi è sempre stato antipatico, perché faceva il prepotente. Gli tirai un calcio sullo stinco a quel coglione. Mio padre mi trascinò via di forza e disse di non farlo più, ma non alzò un dito. Non lo faceva mai, d’altra parte, anche se gliene davo motivo spesso. 

Quel giorno è il ricordo più nitido che ho delle feste al paese, ma se mi sforzo ne trovo altri nelle pieghe della memoria. Al paese ci tornavamo ogni anno, apposta per festeggiare il carnevale. Ci divertivamo tutti. Poi a un certo punto, non mi ricordo bene quando, abbiamo smesso di ridere. 
Due anni dopo, era il 1991, non facemmo niente. Noi non capivamo perché. I grandi ci risposero bruscamente: c’è la guerra. Era la guerra del Golfo, quella guerra che ho visto per la prima volta in diretta nelle televisioni di casa, con il volto emaciato di Cocciolone ostaggio degli iracheni che teneva gli italiani con il fiato sospeso. Capivamo la guerra e ci dispiaceva, ma non capivamo perché si doveva rinunciare al carnevale. Ci fu anche un vagito di ribellione, con tre quattro di noi, i più incazzati, che andarono dai grandi a chiedere di continuare la tradizione nonostante tutto, ma fummo liquidati senza troppo riguardo. C’era la guerra quell'anno. E anche dentro le famiglie si sentivano echi di schermaglie e liti, beghe legate a divisioni di quote, rapporti logori. Forse c’erano sempre state queste cose, ma a 12 anni cominciavo ad avere orecchie giuste per sentire. Mi sembrava che qualcosa stava cambiando. C’era molta più fretta, c’era la voglia di ricchezza e di risparmio. Qualcuno cominciava addirittura a parlare di piccoli investimenti in borsa, dopo la decennale fiducia cieca nei titoli di stato. Mio zio faceva spesso discorsi sul fatto che voleva mettere su una piccola impresa, piccola piccola ma che alla fine poteva essere un buon passo. I miei parlavano sempre dei risparmi per la casa da fare al paese, che sarebbe stata la meta finale di destinazione delle loro vite: l’Itaca su misura che stavano progettando per accogliere il loro ritorno a casa, dopo una vita di lavoro fuori. 


L’anno dopo c’era la guerra in Jugoslavia, poi la madonna di Lurdes, poi morì mio nonno, poi si spense tutto. Non facemmo più feste a carnevale. Certo continuavamo a fare feste, con grandi tavolate e brocche di vino rosso scuro, ma le feste di carnevale niente più. Non c’erano più i costumi e il via vai di persone da casa di mio nonno. Si stava meno insieme, si preferivano i gruppi più piccoli. Cominciai a sentire lamentele sul fatto che poi alcuni non fanno niente e tocca sempre a noi pensare a tutto, mettere a disposizione la casa e i mezzi e insomma non è bello che fanno i furbi. C’erano sempre più storie di questo tipo. Sentivo parlare spesso di soldi, di progetti, di interessi personali. C’era una specie di ubriacatura generale. Tutti sembravano interessati a costruirsi un avvenire, un futuro che portasse il marchio della realizzazione quale prova del loro successo: una specie di calvinismo d’accatto. Circolava una versione in scala ridotta della grande promessa di benessere, l’ennesima, che annunciavano quegli anni. Erano gli anni novanta, quelli che annunciavano il trionfo del capitalismo e la fine della storia, ma noi tutto questo lo ignoravamo: ci si accontentava delle briciole della Storia lì in provincia. Ci bastava sapere che il comunismo non c’era più e che la nostra squadra aveva vinto a tavolino per inadeguatezza dell’avversario. E allora, non so come mai, le formichine che avevano risparmiato così tanto negli anni del boom economico ora si ritrovavano con un po’ di scorte da rimettere in circolazione. Qualcuno investiva in borsa su consiglio del commercialista, qualcuno apriva un negozio, chi aveva un bar o un locale lo ristrutturava, tante nuove partite IVA. In effetti si stava meglio, giravano più soldi e le foto ingiallite dei miei sembravano parlare di un passato economico molto più distante. I vestiti semplici, i paesaggi, la scenografia delle pareti senza intonaco, erano tutti indizi inequivocabili di un passato molto più rustico. Eppure… 

Sfoglio i vecchi album e noto che nelle foto degli anni Novanta sono aumentate le tracce di ricchezza ma sono diminuiti i sorrisi. Più ricchezza, meno risate. Ecco qual è il prezzo che abbiamo dovuto pagare in cambio del sapore inebriante del benessere: abbiamo barattato la semplicità e un pezzo di felicità con l’illusione di essere ricchi. Non saprei direi bene quando è successo, ma deve essere stato quello il momento in cui abbiamo smesso di ridere.

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